An Invisible Journey
Galleria L'Arte Club | Catania
7 - 30 marzo 2008
AMNIOTICHE AMNESIE
di Stefano Elena
"Fammi un favore stamattina.
Chiudi le tende e torna a letto.
Lascia perdere il caffè.
Faremo finta di essere in un paese straniero, innamorati."
Raymond Carver - La strada
Succede nei soliti posti di mai.
Con i lampioni, accesi di un silentegiallourbano, che puntano sul niente.
I semafori fuori servizio a lampeggiare cadenzati.
L’alfabeto morse della segnaletica orizzontale stampato sul nero.
Il repertorio di una lingua ideale compare al completo, simile all’ideazione scenografica pensata per un ignoto percorso notturno.
I soliti posti di mai sono quelli estranei che sembrano già visti, ricorrenti come proiezioni di una memoria che nella nostalgia si sente a casa. Quei posti in cui la SENSAZIONE di trovarsi ospiti smarriti accompagna i ritmi degli sguardi e acutizza le impressioni.
Dove il modulo consueto è l’assenza di riferimenti propriamente nostri, di schermate qualsiasi che appaiono di una costanza disarmante. Forse possono persino diventare celebri.
L’autoptico bianconeon che ronza, i riverberi concentrici dei bagliori elettrici tenuti alti da gambi curvi, i rumori pochi che sembrano troppi mentre anche le ultime ombre hanno smesso di far tardi…
Le peripezie immaginifiche, di fronte a queste bocche spalancate pronte a inghiottirci come fanno gli incubi o i cattivi nelle favole censurate, diventano corse interminabili di una psiche che per indotta o assuefatta persuasione è portata a riconoscere in vedute "fuori le mura" come quelle di Samantha (imperdibile l’occasione rara di usare, al posto del solito cognome da modulo statale, un nome tanto testogenico come Samantha…) percorsi obbligati del pensare l’evasione senza ritorno, i primi accenni di un cammino che ci si augura sempre non abbia ripensamenti.
Ogni punto luce è un punto fuga, ogni traguardo assente culmina nel vertice di strutture triangolari senza caselli d’ingresso o di uscita. Tutti questi tratti finiscono a punta e tendono all’alto, pur restando irrimediabilmente fedeli al manto piatto che àncora e tiene fermi giù, giù per terra, con la stessa forza infame di un campo magnetico insuperabile.
Il viaggio è fatto di immobilità, di elementi seriali che sbucano dopo le curve, di frames che Samantha ferma con scatti o riprese digitali, che ruba on-line, per un riempimento obliquo e misto dello spazio su tela trasformato finalmente in ambiente bastardo di mescolanze e contaminazioni figurative, cosicché la transumanza di maniere espressive possa coagularsi nell’intervallo interstiziale del supporto classico, tela e telo assieme in grado di sopportare al contempo soste e spostamenti.
Solide zone del reale virate alba (o qualsiasi altra gradazione vi piaccia, purché sia tra quelle che lasciano l’uomo altrove) si estraniano dal vero per frequentare un azzurrognolo limbo in gestazione senza tonalità d’arrivo, in costante divenire e percorrere come il Sunset Boulevard di Lynch. L’attendibilità afferma e nega se stessa facendo perno sull’apparente percorribilità di un tangibile cammino esterno che si fa invece esponente di un dubitabile pensare il dopo, quello ancora troppo distante e che forse non è neanche un bel posto.
Ma se cercare e cercarsi non fosse un’incertezza irrisolvibile, tutto dovrebbe esistere davvero.
Tra soliti sospetti e linee rette convergenti, le soggettive senza soggetto di Samantha (perché mai credere di essere proprio noi, quelli che si immettono su questi asfalti quasi blu tanto somiglianti ai ricordi di qualcun altro?) sono escursioni sospese che galleggiano nel tepore di una placenta catodica senza segnale, nella trasmissione amniotica inesistente di un canale che, come tutto il resto, non c’è.
Levitare clandestini dentro uno spazio clandestino emula gli appagamenti virtuali di simulazioni che potremmo a questo punto disegnarci addosso, partendo a nostro piacimento e a un’ora qualunque, verso qualsiasi speranza mancata o mancante, memori degli artifici consolatori visti in "Strange Days".
Oppure potremmo sondare in veste di sicari le strade zitte di una metropoli mai vista, come in "Collateral".
O, ancora, potreste essere il Sailor o la Lula di "Cuore selvaggio", trovarvi nel più esclusivo dei road movie tenendo lontana la strega cattiva dell’est.
A patto di non deformarvi in avatar, ciascun viaggio vi venga in mente è ben accolto, dalle finestre a schermo intero o in 16:9 di Samantha. Meglio però partire quando c’è quella luce lì, quella dei suoi quadri, quella che starebbe bene in un acquario o dietro il termosifone di "Eraserhead".
Se vedere un’autostrada ferma (o forse è tanto sfrecciante da fermarsi) può sembrare un paradosso, abituati piuttosto a panorami d’altra stirpe che non quella in cemento qui raffigurata a più riprese rasentando le sorti di una terapia espressiva escludente veri moti a luogo, accade in queste stasi da giorno festivo - durante le quali a riempirsi sono a malapena le chiese e gli interni di famiglia - di poter fiutare quella "ripetitività mitica della vita quotidiana", di cui scrivevano Maffesoli e Dorfles, che consente l’agibilità a piacere del tempo, la sua reversibilità, così da renderne efficace l’effetto ciclico. Nei momenti in pausa si può cioè transitare liberamente, riavvolgendo o mandando avanti veloce per tornare o giungere, allontanarsi o affrontare, accettare o fuggire. Così, i giorni con te in paesaggi bianchi come i senza titolo di passaggio sono azioni arrestate, play congelati che provvedono al trattenimento e concedono uno svolgimento altro della trama esistita che l’artista "cancella" e azzera, convertendola in tessuto vergine sul quale registrare ancora e ancora, nel quale vedersi in presa diretta prima che qualcun altro si sintonizzi e vi preceda. Nel quale perdersi prima che sia tardi. Possibilmente senza dimenticare l’autoradio perché il suono, quando diventa memoria, non si toglie più.
Io li uso così, questi tragitti perpetui. Con un’original soundtrack tutta mia (vi esorto a farvene una e poi tornare in mostra: attraverserete meglio la soglia…) che, assieme ai viaggi che mi concedo, estrae da queste visioni perdute nel nulla, da questi attimi di pura, profonda e bellissima amnesia liquida senza ore, le fattezze palpabili e carnali del posto da raggiungere. E che lui ci attenda o meno, il posto intendo, l’importante è arrivarci.
Con destinazione ignota, questi non traguardi comatosi olio su tela - di color tenue come un bianco e nero reso saturo e poi ritoccato - portano altrove, lontanissimi da qui.
Ovunque, chi ancora sogna un po’, pensa di arrivare quando vede un aereo sorvolargli la vita all’improvviso, mentre è lì a fare altro.
Magari a scrivere di un’artista che vuole andare via.
Basta così, è quasi giorno. Buon viaggio a tutti, signori. Ci vediamo lì. Ovunque sia.
AN INVISIBLE JOURNEY
di Giuseppe Iacobaci
Le opere di Samantha Torrisi, nella loro essenza stessa di fotogrammi rubati a un continuum diacronico - frazioni cioè di una ripresa, che è essa stessa frazione del tempo reale - sembrano evocare, già su un piano strettamente teorico-formale, lo straniamento e la solitudine della goccia nel mare del reale, dell'istante nell'inesorabile scorrere del tempo. Il primo guizzo razionale che ci coglie, subito dopo l'impatto emotivo, è l'apparente casualità dei soggetti e dei luoghi; il secondo è l'assoluta erroneità del primo. Perché mai apparenza fu così ingannevole: casuale può essere una posa, proprio nel suo tentativo di cogliere e realizzare l'intenzione plastica; casuale è la memoria; mentre lo stand-by è il controllo più netto e spietato che la tecnologia abbia saputo imporre al tempo, e, qui, la pittura infligge il suo ulteriore controllo e il suo potere su entrambi, scolpendoli a fuoco e sconfiggendoli con un contrappasso d'umano e di eterno. L'attimo è osservato, prescelto, amato, soffiato da un vento di colori, reso immobile, ammantato di tenerezza. L'elezione dell'attimo, i cui soggetti sono protagonisti profondamente veri perché ignari, sembra così rendere dignità a fotogrammi infinitesimali, trascurati, dimenticati nel tempo, fissandoli e cullandoli alla luce e al calore degli oli, restituendo allo spettatore un immediato senso di nostalgia, di caducità mortale. L'attimo, elemento della memoria perduta di ciascuno di noi, illuminato della consapevolezza e della spietatezza del tempo, commuove; le figure, sbaffate, slabbrate, sono unità di riferimento per lo straniamento dei grandi spazi, non tanto e non solo come misura fisica di raffronto per l'enormità, quanto presenza viva, emotiva, proiezione dell'osservatore, delle sue solitudini e nostalgie narrate all'interno dello spazio pittorico. La specificità dell'istante minimo di un estraneo inconsapevole e inerme nella sua fragilità diventa riecheggia così rimpianti e angosce universali dentro ciascuno di noi.
In An Invisible Journey, qualcosa di profondamente nuovo è accaduto, qualcosa si è trasformato: gli spazi, non meno enormi e stranianti, sono oggi spazi in moto, in qualche modo partecipati, dominati; e non occorre riflettere a lungo per cogliere che la figura umana non è scomparsa, è solo sbalzata al di fuori del quadro, risolta e riunificata con lo sguardo dell'osservatore restituito finalmente al suo ruolo, pacificato, maturato delle inquietudini non certamente scomparse, ma ora conosciute, metabolizzate, inquadrate, affrontate. Un viaggio invisibile che è parte e compimento di quella stessa pellicola, un percorso catartico e necessario, non di fuga ma di ritrovamento, di scoperta, di esplorazione, verso chissà quali future attonite istantanee rubate al flusso incessante dell'essere, ed eternate dal calore, dal colore, dal segno.