Se ogni giorno fossi lieve
testo di Alessandra Redaelli
Galleria Carta Bianca | Catania
21 ottobre - 19 novembre 2022
I NON LUOGHI DELL'ANIMA
di Alessandra Redaelli
Nel complesso di un panorama contemporaneo in cui il senso della bellezza sta finalmente riprendendo terreno su un concettuale freddo, usurato e fuori tempo, Samantha Torrisi fa parte di quella schiera di artisti che hanno sempre voluto mettere al centro della loro ricerca il piacere estetico. Nel suo caso si può parlare, senza rischio di sbagliarsi, di sublime e di incanto. Incanto inteso nel suo duplice significato, quello del compiacimento e anche quello della magia.
Immersi in una nebbia che sgrana i contorni e che sembra attribuire la medesima consistenza fisica a ogni elemento – sia esso albero, terra o cielo – e mossi da una vibrazione interna che si avverte quasi come un sussurro o un fruscio, i suoi paesaggi scorrono letteralmente sotto il nostro sguardo come se ci fosse impossibile catturarne l’essenza e fermarli. Il loro aspetto fuggevole, mnemonico verrebbe da dire, mette i nostri sensi in una sorta di urgenza, come se temessimo di veder scomparire l’immagine da un momento all’altro, e al tempo stesso ci impedisce di arrestare lo sguardo su un unico punto, perché qualunque sia il nostro oggetto di partenza, l’occhio comincia inesorabilmente a scivolare altrove, a rotolare piano giù dalla cima dell’albero per trovarsi immerso nella nebulosa verde del prato e da lì sprofondare nel punto più scuro e fondo, intravedere il fantasma di un sentiero, cominciare a seguirlo e trovarsi di colpo a camminare sopra le nuvole, rendendosi conto che sono soffici, sì, ma solide.
Quando si osservano uno accanto all’altro i paesaggi dell’artista, il pensiero inevitabilmente corre alla sensazione che si provava durante i lunghi viaggi in treno, quando ancora non si sedeva perennemente immersi nel flusso costante di un device tecnologico e al massimo si ingannava la noia con un libro, che invitava ad alzare lo sguardo e a divagare. Fuori, in quel formato orizzontale che ognuno di noi ha bene impresso nella retina, il mondo scorreva vago, senza lasciare tracce precise, ma piuttosto regalandoci la sensazione diffusa di una campagna, di un fiume, magari, di un bosco, tutti mescolati nell’unica vibrazione della velocità e ricomposti poi, nel nostro cervello, in una sorta di sintesi del paesaggio.
All’immagine che scorre Samantha Torrisi si è ispirata da sempre, lavorando non solo sul cinema, ma anche sull’estetica dei videogame e poi traducendo quella sensibilità attraverso l’uso, come modello, di fotografie da lei stessa scattate. Ne nascevano via via architetture claustrofobiche, strade deserte avviluppate in prospettive pericolanti, spazi abbandonati che portavano verso soglie buie, spiagge svuotate. È il tema del bosco, però, quello che domina la produzione più recente, a portare alle estreme conseguenze la rarefazione dell’immagine e a farsi perfetto interprete di questa sensibilità vibrante. È qui, in questi scorci in cui il cielo è spesso protagonista, che si perdono definitivamente tutti i punti di riferimento: messo di fronte a questa traduzione così archetipica del concetto di paesaggio, lo spettatore è ammaliato da quanto di familiare vi riconosce. Il luogo preciso, quello che l’artista aveva preso a modello nel momento in cui iniziava a lavorare al progetto, nell’indeterminatezza della pennellata che si sgretola diventa non-luogo, spazio mentale. E in quanto tale, paradossalmente, diventa ogni luogo. Il viaggio dentro il dipinto si fa così esplorazione di qualcosa di familiare, come addentrarsi in un sogno ricorrente, e chi ha passeggiato riempiendosi le narici degli odori resinati dei boschi trentini si ritrova esattamente lì, così come si ritrova nella campagna toscana chi è abituato a frequentarla, o nei boschi della Sicilia – proprio da questi, in effetti, prendono spunto la maggior parte dei paesaggi dell’artista – chi vi ha dimestichezza.
Quello che l’artista ci invita a intraprendere non è in effetti un viaggio reale, ma piuttosto un percorso di introspezione, un viaggio all’interno della mente. Sensazione enfatizzata dal fatto che per gli ultimi dipinti Samantha Torrisi ha lavorato soprattutto sul ricordo, sui propri frammenti di memoria. Non a caso quando lei parla dei suoi paesaggi li definisce autoritratti, sintomi di uno stato emotivo. È proprio in questo punto – e non solo a livello meramente percettivo – che si coglie il legame profondo tra il lavoro di Samantha Torrisi e tutta la cultura romantica e Sturm-und-Drang. Le sue radici affondano lì, nel paesaggio osservato dal Viandante sul mare di nebbia di Caspar David Friedrich, nei cieli di William Turner, e poi, più avanti, nella vibrazione del pennello di Claude Monet. Ma c’è molto di più, perché Samantha Torrisi è un’artista del Terzo Millennio e come i suoi coetanei sa filtrare e contaminare le suggestioni, sa citare e ribaltare, inframezzando il suo figurativo di interessanti cortocircuiti concettuali. Ecco allora le visioni in soggettiva rubate al cinema, lo smantellamento della figura operato da Gerhard Richter o le cromie dilaganti, colanti in verticale, che a tutta prima davanti ad alcuni dei suoi pezzi più recenti fanno pensare ai color field di Mark Rothko.
Il maestro spirituale Eckhart Tolle nella sua guida all’illuminazione Il potere di adesso, invita a svuotare la mente per giungere a un silenzio dell’ego che permetta alla consapevolezza di affiorare, e tra le vie per arrivare a questo annullamento del pensiero suggerisce di concentrarsi sui silenzi tra un suono e l’altro e sullo spazio tra gli oggetti. Sul vuoto, sostanzialmente. Anche in questo senso si può parlare del lavoro di Samantha Torrisi come di un percorso di introspezione. I suoi dipinti, infatti, riescono a individuare proprio quello spazio, a rendercelo visibile e accessibile, facendosi viatico del viaggio spirituale.
Ma c’è dell’altro. Se questo è possibile è anche grazie alla totale mancanza di coordinate reali. Non solo, come abbiamo già detto, che ci permettano di ricostruire un luogo, un dove. Dei paesaggi di Samantha Torrisi non è nemmeno possibile stabilire un quando, un tempo. Questo è un punto importante su cui vale la pena di soffermarsi: l’immagine che ci troviamo davanti è difficile da collocarsi cronologicamente perché a prima vista ciò che cade sotto il nostro sguardo è solo natura. Eppure qualcosa ci sfida, lo avvertiamo senza comprenderlo completamente. Perché per quanto sia vero che quello che il nostro occhio percepisce sono solo profili di alberi e uno scorcio di cielo, la nostra mente razionale avverte un varco tra quelle chiome, lo intuisce, e sente che qualcuno, lì, ha ricavato un sentiero. L’incanto del lavoro si pone proprio qui, in questo spiraglio di dubbio: anche quando la nebbia dilaga ovunque, in un’atmosfera quasi apocalittica, l’artista offre il suggerimento di un intervento esterno, di una purezza in qualche modo violata.
È la narrazione discreta, appena sussurrata, che l’artista decide di sottendere al suo lavoro. La stessa che la spinge a centellinare la presenza umana. Se una figura c’è, è di spalle, come il viandante di Friedrich, perché sono i suoi gli occhi attraverso i quali facciamo nostra questa visione, perché quella figura siamo noi. Oppure è una presenza vaga, appena accennata, trasparente, asessuata. Ma per lo più l’umanità è assente e lascia solo vaghi segni del proprio passaggio. Un paletto di quelli che si usano per misurare l’altezza della neve (squisito contrappunto cromatico netto e luminoso) oppure un cavo dell’alta tensione che spezza la continuità del cielo sopra le cime degli alberi, poco più che un disturbo visivo.
Negli ultimissimi lavori, tuttavia, le allusioni all’antropizzazione si fanno più assertive e assumono nuove connotazioni astratte. Come se il suggerimento della presenza umana a turbare la perfezione della natura non fosse più sufficiente per raccontare di un ambiente che sta soffrendo l’intervento dell’uomo e che a questo si sta sempre più ferocemente ribellando. Ecco allora che all’improvviso, su un panorama di pini appare una lieve cornice quadrata, simile a quelle che scandivano gli interni sofferti di Francis Bacon. Oppure il disturbo visivo si fa macchia, schizzo di colore vivo o nero come cenere. A suggerire che tra noi e il paesaggio che ci illudiamo di possedere si è alzato un vetro, un ostacolo che ci separa da quella nostra natura primordiale che abbiamo tradito e sporcato. Un impedimento che rischia di rendercela irraggiungibile e di fare di noi degli orfani senza dimora.